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Ascierto, Galli, i messinesi-bene ed altre storie

Aggiornamento: 27 giu 2020

Qualcuno ha scritto, meglio sul divano che al fronte.



Il saggio riderebbe, di questa asserzione.


Perché al fronte, ogni altro pensiero, ogni emozione, ogni considerazione sulla vita che fu e su quella che probabilmente non sarà, confondono l’animo del fantaccino, riducendolo a controfigura dell’umanità intera, all’uno, nessuno e centomila testimoniato dal grande agrigentino.

Al fronte, vivi o muori. Sul divano, pensi. Ed è un guaio, probabilmente.

Leggo, nell'universo virtuale e tuttavia piccolissimo che ci riduce a dipendere da uno schermo piatto, le emozioni del popolo, dell’amico e dello sconosciuto

La diatriba tra Ascierto e Galli, ad esempio. Davvero non una diatriba, ma l’invettiva del secondo contro il primo, simile a quella del barone universitario che teme il collega silenzioso ed esperto. Senza voler dissertare tra sud e nord, e qui mi pare non sia il caso: se qualcuno rifiuta di leggere il Rapporto Eurispes, le note della Banca d’Italia, gli studi certificati, gli stessi riconoscimenti alla verità storica da parte di amici legati all’autodeterminazione dei territori del Nord, peggio per lui. La mitopoiesi di una Nazione unica e che contrasta con un centralismo romanocentrico disfunzionale dal 1860 ad oggi, nefasto alle ragioni degli uni e degli altri, non mi stimola, al confronto, più di tanto. E relego la storia tra il professore napoletano, riconosciuto tra i migliori 5 oncologi esperti di melanoma al mondo e il virologo accidioso e invidioso dell’ospedale meneghino-poveri amici milanesi- al posto che le compete nella cronaca, alla frase fatidica del vecchio caro Totò: “siamo uomini o caporali”? Ovvio, il professor Galli è il graduato

E che dire di quei rappresentanti della Messina che conta, trasferitisi armi e bagagli sulle nevi delle Alpi per la settimana bianca e che poi, tornati sullo Stretto, hanno pensato bene di non autodenunciarsi per la quarantena? E qui, amici cari, c’è da conoscere bene le dinamiche di potere della città “babba”. Messina da decenni è dominata da famiglie potenti, da feudatari e vassalli “infeudati” non dal sovrano, non dall’onore delle armi, ma da amici potenti, amici, anche e solo talvolta, degli amici. E senza che vi sia possibilità di riscatto da parte della sonnolenta città peloritana. Perché, a fronte di alcuni coraggiosi, tanti altri, per necessità, viltà, consuetudine, cattiveria, si sono aggregati al carro del vincitore e ne sono diventati plauditores e clientes. Con la favoletta che Messina è monda dai crimini di mafia e dunque va già bene così. Non è vero, su Messina sono scese le ali rapaci della ‘ndrangheta, e poi della mafia di Barcellona, forse anche di quella di Catania, fatto salvi gli equilibri di cosca. Tra l’altro, nelle Università messinesi, quanti sedute di laurea si sono concluse con una minaccia o con una generosa donazione? Per carità, la stragrande maggioranza dei laureati ha conseguito onore e merito sul campo, ma la rabbia resta. Come resta contro coloro che hanno goduto di privilegi familiari, addirittura risalenti al terremoto di Messina e alla ricostruzione. Accidiosi ereditieri usi solo a sfruttare, sibi et suis, la fortuna loro capitata. E dichiaro ciò che so, senza voler accennare minimamente al potere di cui si serve ed approfitta una certa massoneria, quella che ci fa piacere definire “deviata”

Ma, con l’episodio accaduto, dico delle reazioni contrapposte della plebe peloritana, di tutto questo poco serve sapere. Entrano in gioco dinamiche diverse, sollecitazioni diverse, che nascono e si esasperano nelle anime che la Città esprime: quella di chi si è sempre sentito escluso, quella di coloro che hanno esercitato un potere loro delegato in modo fraudolento e quell’altra ancora che, forse omertosamente, non si schiera

Quante invettive, anche terribili, quante difese di ufficio (forse da chi ha amici e parenti tra i vacanzieri). Tutto inutile. La cosa incredibile, mi viene riferito da amici di laggiù, è che stiano partendo denunce e contro denunce. E quel fronte che non ci fu, quel divano che avrebbe dovuto acquietarci, diventa il vero campo di battaglia.

Dei notabili di Messina, ahinoi tra loro anche medici tornati senza profferire parola al lavoro, e ad emergenza conclamata, posso solo dire, di là dal DM, uscito appena dopo la loro partenza per la montagna, che ci fosse in giro un attacco virale di particolare virulenza, e lo si sapeva dalla fine di febbraio. Tanto è vero che noi, lavoratori dello sport, quassù avevamo chiuso le piscine ben prima delle misure impositive. Ma ritengo la cosa sia grave soprattutto perché molti di loro sono persone di alto livello culturale, persone mature e di esperienza, alcuni addirittura medici, come scrivevo, e risulta, il loro comportamento, ancora più grave, perché non hanno fatto autodenuncia in una città che ha bisogno più d'ogni altra di inviti alla legalità, ed hanno dato un pessimo esempio ad una gioventù sbandata e senza punti etici di riferimento. La civiltà greca, quella della vergogna, quella di cui tutti siamo debitori, concedeva gloria a chi si fosse assunto le conseguenze della “colpa” e da quella colpa avesse trovato il modo di riscattarsene. Ma forse, sul divano, anche io deliro, questa non è l’Attica o il Peloponneso, questo è l’impero angloamericano, del liberismo assoluto, del voglio quindi posso. E, allora, perché provare vergogna per un comportamento “appena fuori le righe”? (sic)

Al netto, ovviamente, dei deliranti sfoghi da tastiera, quelli che invocano lo squartamento dei reprobi, quelli partoriti dai fantaccini del divano che in guerra mai sarebbero finiti, relegati, per raccomandazione, nelle retrovie, in comodi uffici.

Due episodi che sono il termometro (eccolo!, il termometro) di quel che sta accadendo e accadrà. Il divano sta uccidendo quel minimo di solidarietà umana che ancora alberga nei cuori di persone devastate dal mito consumista, dal potere illimitato della liturgia della Finanza, dell’obbedienza all’impero globale.

Il divano è più terribile della prima linea e, se questa emergenza dovesse durare, ne vedremo delle belle

MAURIZIO CASTAGNA

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