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La tratta degli schiavi

Aggiornamento: 28 giu 2020

La storia si ripete: le ragioni dei vinti

Schiavo frustato dal padrone
Schiavitù

Certamente, dalla parte dei vinti, che noi proviamo a immaginare come una postazione

rovesciata rispetto alla corretta visuale di avvenimenti e personaggi, risulta difficile discriminare il vero dal falso, il giusto da ciò che è sbagliato, il buono dal cattivo.

Parliamo della tratta degli schiavi

Le navi negriere, che muovevano dal continente nero- complici nella tratta arabi e autoctoni e irreprensibili gentiluomini britannici, portoghesi, francesi, spagnoli, poi belgi- finanziate da società create ad hoc, obbedivano a un progetto manifatturiero che si concretizzava, da un lato, nella coltivazione del cotone, dall'altro nella trasformazione del cotone raccolto in manufatti di pregio o di minor valore commerciale. In fabbriche che godevano delle nuove scoperte che portarono alla realizzazione di macchinari complessi e che diedero impulso alla Rivoluzione Industriale, una rivoluzione industriale precipitosa come ebbe a dire Paolo VI nell’enciclica “Populorum progressio”, che lasciò dietro milioni di disperati.

Nella penisola italiana erano assai sviluppate le fabbriche produttrici di seta. Come quelle di San Leucio al Sud, primo progetto di struttura sociale su base comunitaria e al Nord in vari siti, sebbene assai meno famosi, nel Biellese soprattutto.

La seta veniva importata dall'Oriente grazie allo sviluppo della marina mercantile e ai porti brulicanti - più al Sud che al Nord- di agenti procuratori che provvedevano alle transazioni commerciali.

I capitani di impresa delle nascenti industrie britanniche invece adottarono il metodo della manodopera a bassissimo costo-come volevano comportarsi nelle zolfare siciliane, innestando la reazione dei Borbone e la loro temporanea esclusione dalla gestione- negli impianti in madre patria. I finanziatori e i proprietari dei latifondi cotonieri quello dei costi praticamente azzerati, nelle piantagioni nord americane.

Bastò ai britannici l’imposizione della produzione dei prodotti della terra solo in funzione della loro totale esportazione, nella dominata Irlanda, per costringere numerosissimi padri di famiglia gaelici all’imbarco per le città manufatturiere inglesi e americane.

Gli irlandesi come gli schiavi africani, salvati, a dire delle potenze anglosassoni e poi dai francesi e dai belgi dalla schiavitù loro imposta dagli arabi. Un po' come oggi gli occidentali giustificano le devastanti guerre per “proteggere” -locuzione ben strana quando invece procurano morte e distruzione e dolore- indicando nei terroristi il solo male del mondo.

Tutto era calcolato al millesimo sulle navi negriere e, quando fosse necessario, meglio ammazzare schiavi -uomini, donne e bambini- piuttosto che perdere vascelli e altra mercanzia.

Fra i capitani delle navi negriere molto considerato era tal Giuseppe Garibaldi, caro ai britannici per questa sua encomiabile opera. E che continuò a servire in altro modo, altrettanto cruento, violento e “millantato”, la Finanza anglosassone e quella francese.

Quando gli schiavi negri parvero servire alla nascente potenza industriale degli stati americani del Nord, fu “inventata” la guerra di secessione “in nome della libertà degli schiavi” che una sapiente pubblicistica impose ai “buonisti” di allora e che tuttora vige incontrastata.

E, forse, anche quella guerra territorialmente limitata, storicamente dimenticata, umanamente ignorata, come l’invasione asimmetrica del Regno borbonico a Sud dello Stivale, forse anche quella narrazione asimmetrica va riscritta. Non nella forma attuale che racconta di gloriose imprese e alti ideali, proprio come quelli che consentirono ai Greci non la conquista di rotte commerciali e l’eliminazione di un pericoloso concorrente mercantile, ma la vendetta contro un principe troiano per una storia di corna (risulta strano, ma le leggende sulle anime pie fanno più presa delle narrazioni delle fonti). Non nella risposta dei revisionisti (ahimè oggetto di derisione dalla cultura del Grande Fratello) che vede nella apertura di Suez e nel controllo economico e politico dello Stivale le ragioni che obbligarono la Massoneria Britannica a finanziare l’ Unità dei popoli italici, in maniera forzata e violenta. Ma una nuova narrazione storica che descriva come anche quella guerra asimmetrica e non dichiarata fosse stata immaginata come la stura per la produzione di nuovi schiavi. Quando le terre vengono invase e conquistate, agli abitanti non restano che gli occhi per piangere, naturalmente quando le guerre sono “locali”, geo-strategicamente definite. E dunque la grande emigrazione meridionale, come quella successiva dal Veneto, consentì agli Stati europei del Nord, ma soprattutto alla nascente potenza nordamericana di impiegare nelle sue fabbriche milioni di meridionali, come di irlandesi, come di schiavi neri “liberati”, senza garanzie e con stipendi al limite della sussistenza.

Non molto è mutato, oggidi.

Ovunque, il lavoro forzato insegue centinaia di milioni di esseri umani. Le mafie e i governi che hanno interesse ad ottenere mano d'opera a buon mercato si strappano dalle mani poveri cristi e fanciulle innocenti, in Asia, Africa e in Europa. 100 mld di dollari all'anno fruttano questi nostri disgraziati fratelli alle mafie, che ne importano a milioni, strappandoli a un destino dì povertà per andare incontro ad un altro destino di ignominia. Le donne vengono sfruttate ed umiliate a casa loro e qui da noi. Mentre una narrazione asimmetrica vuole che, in Europa, raggiungano il miraggio della libertà.

Io non contesto i comportamenti, ma prima di decidere di indossare una maglietta rossa, si dovrebbero contestare alla radice le politiche liberiste nel mondo. Non appoggiarle pedissequamente. Quelle che, per interesse di nazioni potenti e potentissimi manager d'impresa accendono ovunque focolai di guerra e morte. E derubano, come i "comunisti-liberisti" cinesi sanno fare altrettanto bene, il resto del mondo, lasciando interi popoli alla fame.

Ci vogliono risposte esagerate, altro che invitare ad indossare un capo di abbigliamento dalle spiagge di Capalbio o da un appartamento di Manhattan

Ma le risposte esagerate impegnano una vita, le magliette rosse solo la lavatrice una volta dismesse.

Fuor di polemica, che la polemica molte volte è sterile, forse orba, allontana dal fare, costringe all’inazione per troppa verbosità e divide non potendo unire, perché confonde le iniziative individuali con il proprio autonomo giudizio, ti inorgoglisce scioccamente a scapito del pensiero altrui che, in ogni modo, va valutato, va detto, però, con De Benoist, che chi critica l’importazione schiavista di manodopera a buon mercato e non critica il liberismo sfrenato è come colui che vuol svuotare il mare col cucchiaino. E’ nella stessa posizione di chi critica il liberismo sfrenato senza criticare l’immigrazione forzata dei nuovi lavoratori senza garanzie.

La controffensiva, il miraggio da sempre voluto e desiderato dai magnati del Grande Capitale o dai dirigenti dello Stato Assoluto Dirigista, è la creazione di un esercito di disperati senza futuro.

Schiavi, appunto. Ma oggi che il fariseismo impera, non è bello chiamare schiavi i lavoratori senza garanzie, autoctoni o immigrati che siano. E’ più chic indicarli come “esseri umani bisognosi delle nostre cure”. Come le invasioni di terre altrui, le guerre portate in tutto il mondo sono spedizioni militari per “dovere di proteggere” come sottolineano la Nato e l’ UE e qualche bel personaggetto nostrano. Lava l’anima, questo sentenzioso scrivere, questo apoftegma delle anime belle, costringe il disperato ad esser grato al nuovo benefattore, al nuovo padrone.

Ed oggi che la stretta della speculazione finanziaria e delle valutazioni abnormi e interessate delle agenzie di rating stringono anche l’imprenditoria diffusa in una morsa, pare più facile indicare nel contributo sociale al lavoro il male da estirpare, piuttosto che promuovere come bene assoluto la condivisione di futuro tra imprenditori, dipendenti e collaboratori.

La filiera dei disperati che nasce nei paesi a dominazione coloniale diffusa e perseguita anche dopo la fine del colonialismo politico (non quello economico e finanziario) ha una sola matrice. Per esperienza so che chi fugge dalla guerra tendenzialmente resta accanto alle sue case distrutte, i suoi beni perduti, i suoi ricordi. Come attorno a Kabul con decine di migliaia di sfollati nei loro campi profughi. Ma non solo. Anche nel Sud Sudan è così. E, un tempo, anche per gli sfollati di casa nostra. I napoletani nei paesi limitrofi, i siciliani nelle campagne attorno alle città distrutte dai bombardamenti “alleati”.

Eppure a centinaia di migliaia vengono da noi, e sono migranti perlopiù economici. A parte l’obbligo morale di aiutare ed accogliere, donne, vecchi, bambini e malati, abbiamo l’obbligo di impedire che la manodopera “forte e sana” venga brutalmente sfruttata. Che giovani uomini e giovani donne vengano umiliati. Che attendano disperati un passaggio per nuovi orizzonti. Eppure sarebbe così facile rendere al povero ciò che il ricco gli ha sottratto, le sue terre, le sue ricchezze, il dominio sul proprio futuro, la libertà di sceglierselo. In modo affatto diverso, come vuole la narrazione attuale, sorda alla ragione e sapientemente alimentata da chi ha in mano “la roba altrui”, il povero giungerà a casa tua, ma disperato e solo e ti correrà dietro, chiedendo l'elemosina a un ladro.

Prima di stracciarsi le vesti, indossando un capo di abbigliamento diverso, per mezz’ora e non di più, per poi dedicarsi alle personalissime quotidiane faccende, meglio battersi, con l’associazionismo diffuso, la parola e il gesto, la ragione e la passione, contro gli sporchi affari di chi ha bisogno del lavoro sfruttato. In ogni modo possibile. Anche con decisioni dure, facendo fronte. E chi vuole intendere, intenda.

Maurizio Castagna

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