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L’Europa delle Comunità

Aggiornamento: 27 giu 2020

Leggo, e sempre più spesso, della necessità di riunire l’Europa in un consesso che sia federale,

che sia rappresentativo di quei territori nei quali la tradizione, la cultura, la visione del mondo, siano comuni e possano aprire più agevolmente le porte a un futuro condiviso. Quindi con fondamenta solidamente inserite in un crogiolo di esperienze passate ma dinamicamente volto a conseguire successi futuri. Anzi, più ancora, Comunità che sentano intimamente le emozioni che le legano al saper fare, frutto della sapienza accumulata nel tempo, interagenti sulla strada dello sviluppo. Comunità volte a trasformare l’intera Unione, proponendo un nuovo sistema di espansione che, accanto al rinnovamento tecnico e manifatturiero di processo e di prodotto, sia foriero di nuove possibilità di lavoro per i giovani. Mantenendo forti i legami col “mondo antico”, la concezione umanistica e l’adesione a comportamenti etici, sociali e non soltanto funzionali.

Questo trasformerebbe certamente il costrutto e il senso di questa Europa, nella quale i trasferimenti finanziari di pura speculazione superano di gran lunga le transazioni di tipo commerciale. E laddove qualcuno guadagna speculando (e senza pagare le tasse) qualcun altro, in un altrove, ne paga duramente il conto. Il colonialismo trasformato, dalle armi e dalle invasioni coloniali con uomini e mezzi, agli hedge fund e ai commodity futures, alle società fiduciarie con le quali si froda il fisco.

E per evitare battaglie di tipo semantico che sfocino ineludibilmente nel politico e di più bassa lega conviene fare chiarezza. Sui termini.

Alcuni fautori del nuovo federalismo europeo, con intelligenza, dibattono su definizioni come municipalismo e macro regionalismo, nuove etichette nate per mettere sotto una lente di ingrandimento nuove realtà. Poi su quella, fuorviante, di sovranismo. Che, con il lemma “sovranità”, ha poco o nulla a che fare

Andiamo per gradi, perfettamente d’accordo che nuove realtà come le grandi città europee possano esprimere un nuovo modo di essere presenti all’interno di un contenitore tipo UE. Non sono una novità nella storia, dai Comuni italiani del 300 alle città della lega anseatica, ne abbiamo di esempi. Certo, mentre Milano si presenta con i connotati di una città polimorfa e multiculturale, inseribile nel tessuto intellettuale di questa Europa, probabilmente in quello finanziario, non ancora e pienamente in quello produttivo, Napoli è, all’opposto, una città più gelosa dei propri ritmi civili e delle proprie tradizioni. Dopo 150 anni di colonialismo, sono rimaste purtroppo quelle legate al folklore, si fa fatica a recuperare quelle emozionali e culturali. Benché, paradossalmente, Napoli sia, per tradizione e cultura storica, molto più incline delle città commerciali del Nord ad accogliere lo straniero, dal profugo alla persona di cultura all’investitore finanziario, quindi ad aprirsi alle novità culturali “dall’esterno”. E’ una città più osmotica, quindi più libera. In un mondo dinamico come questo, sarebbe una carta da giocare. Inoltre le città come Milano, ma soprattutto Torino, sono molto meno legate ai ritmi del territorio circostante. Viste, dicono gli autori di molti articoli riguardanti il municipalismo, come un nobile snob che disdegni sia l’apparentamento con tradizioni a suo dire obsolete, che con l’idioma natìo che, al contrario, nelle periferie e nei paesi, è rimasto immutato, parlato e compreso. Napoli, in questo, è paradossalmente più strutturata nel proporsi e presentarsi come centro aggregante di esperienze.

Concordo con gli autori nella critica al macro regionalismo, una goffa imitazione degli Stati ottocenteschi, colonialisti ed obsoleti. Macro regioni, formate da territori senza nessun legame tra loro per ragioni culturali, ambientali e storiche ma apparentate soltanto per esigenze mercatiste, funzionali. La perfetta controfigura delle “piccole patrie” costruite a tavolino, che solevano creare, definendone i nuovi confini, gli imperialisti nei territori conquistati, ed oggi inutili soggetti amministrativo burocratici, inermi nel mondo della finanza che tutto stritola se non ci sono collanti atti a cementare un fiero ribaltamento delle posizioni, con la cultura, la scienza, la produttività e gli investimenti, prima pubblici, poi privati.

E fin qui ci siamo.

Desta in me molta perplessità, al contrario, che gli stessi autori che da una parte si richiamano ad un federalismo efficiente e dinamico, che non debba abbandonare tradizioni, emozioni, ricordi, la lingua propria come cemento di cultura, per procedere come un sol uomo nella costruzione di un futuro diverso, nel nome del sociale, contro ogni speculazione di tipo colonialistico e contro ogni tipo di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in nome di un’ecologia umana che superi barriere e convenzioni, poi cerchino disperatamente il riconoscimento di quelle forze liberiste e progressiste che hanno portato i popoli, specialmente quelli del bacino del Mediterraneo, in un cul de sac dal quale sarà estremamente difficile venire via. Mentre muoiono uomini e speranze e, come nell’ottocento, l’unica via di sopravvivenza resta l’emigrazione.

Se questa via è invocata solo per combattere i sovranisti, intesi come cupi oppositori dell’UE ed inveterati complottisti non ci siamo. Dalla padella alla brace. Allontanandoci sempre di più, ma stavolta senza alcuna speranza e vera, ragionata opposizione, dagli insegnamenti di Cattaneo, di Gioberti, degli estensori del Manifesto di Ventotene, Spinelli, Rossi e Colorni, e di Diego Loy nel secondo dopoguerra.

Intendiamoci, innanzitutto, sul termine iper abusato di sovranismo. Che nasce dal rivendicare, a torto o a ragione, poco o nulla importa, una moneta sovrana al posto dell’Euro. Anzi, per dirla tutta, in questo momento, per quanto mi riguarda, sarebbe una jattura abbandonare la moneta unica. Ma non è questo il punto, perché tale significato dovrebbe definirsi nel valore sociale delle Costituzioni nazionali, come quella italiana, nelle quali il concetto ritorna in tutta la sua nobiltà, però come “sovranità”, non certo come sovranismo.

Cos’è una Comunità, un territorio di memorie, ideali ma soprattutto di progetti futuri condivisi? Nel quale, come primo collante, debbano tramandarsi singolarmente ricordi e collettivamente memorie utilizzando un idioma compreso da tutte le classi sociali? Un idioma “ad includendum”, così diverso dalle nuove formule finanziarie, figlie delle formule massoniche tanto care a vecchi e nuovi potenti degli stati centralisti, comprese, queste e quelle, solo da iniziati. A tali Comunità basta nulla per inverarsi come Istituzione. Un corpo di leggi riconosciute, che si definiscono, a seconda degli usi giuridici e dei costumi, Costituzione o Statuto.

Ecco, le nuove realtà regionali, o municipali, o territoriali dovranno pur avere una Carta dei Diritti, più o meno leggera, snella, utilizzabile soprattutto per garantire i benefici sociali e per regolare i rapporti di forza tra i poteri. Una Carta che, in certo qual modo, ne sancisca la Sovranità, almeno nell’ambito di quelle materie che un federalismo maturo, si spera prossimo, nell’ambito di una nuova Europa, voglia concedere alle singole Comunità che si riconoscono nel nuovo Trattato, un nuovo Foedus per il quale, sulla base del diritto tramandato, la cittadinanza diviene quella di tutti, con le norme e gli usi e le consuetudini, le magistrature e le opzioni politiche pienamente rispettate e le attività commerciali e finanziarie non sottoposte a vincoli che avvantaggino i più forti ed umilino i più deboli. Questo tipo di sovranità (non sovranismo) va indicato e sostenuto, sulla necessità di pari diritti e doveri e di legittime guarentigie. Altrimenti il neo giacobinismo, cemento vero dell’affermazione degli stati guerrafondai dell’Occidente e dell’Europa ottocentesca e novecentesca, non farà altro che devastare i nuovi Territori, le vecchie Comunità sociali, per annichilirne i nuovi progetti di sviluppo.

Tutto nasce da altro equivoco sui termini. Il giacobinismo invocato dalle classi intellettuali di mezza Europa agli albori dell’ottocento, quello della fraternità, eguaglianza e libertà, era già morto e sepolto quando le orde francesi insanguinavano l’Europa e i britannici incatenavano alle catene di produzione milioni di cittadini, in nome di quella rivoluzione industriale feroce e precipitosa messa all’indice persino dai grandi Papi dell’era moderna e contemporanea. Tutti gli Stati moderni sono inevitabilmente stati neo giacobini, millantando una genesi in quegli ideali spazzati via da una feroce borghesia che, con il popolo minuto e miserabile, poco o nulla aveva a che fare, i Grandi Camaleonti, appunto. E, mentre le teste mozzate dei giacobini di Francia cadevano, gli intellettuali fingevano di non accorgersi che al loro posto fosse sorta una classe borghese e mercantile capace di inaudite nefandezze. (Non che i primi ne avessero le mani monde, per amor di verità). Paghiamo in Italia, dal 1860 fino ad oggi, duramente, non tanto la capacità militare, veramente risibile, dei generali dei Savoia, non tanto i tradimenti mediati dalle sterline e dalla politica inglesi, non solo il naturale asservimento a politiche apolidi da parte di una classe dirigente protervamente e direi geneticamente predisposta all’inganno e alla concussione, piuttosto una ottusa presunzione culturale che pone, ancor oggi in primo piano, le farneticazioni e i cambi di casacca di Mazzini, così come la spregiudicatezza e la perfidia di Cavour al posto dei pacati, lungimiranti ragionamenti di Cattaneo e Gioberti. Ed è solo per fare un esempio.

Adesso la elites di questo liberismo devastante e mortificante si richiamano a quel giacobinismo, protervamente millantando, come obiettivo civetta, i fini del primo movimento rivoluzionario. E, i nuovi federalisti, chiedono di aderire alle pregiudiziali liberiste. Quelle che hanno conculcato e tuttora schiacciano ogni rivendicazione di autodeterminazione dei popoli. Questo, non posso accettarlo.

MAURIZIO CASTAGNA

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