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Ultras, il giudice Falcone, neo giacobini e identità

Aggiornamento: 27 giu 2020

Cosa c’entrano le persone e le categorie di persone, tutte assieme inserite nel titolo?



Mi spiego, da un po' corre sul web una polemica, più attrattiva per noi tifosi del Napoli calcio che per l’Umanità intera, e mi pare ovvio, tra accaniti accusatori delle mene del presidente della società e suoi tosti difensori.

Non entro nel merito, ma alcune delle accuse reciproche lanciate da entrambi gli schieramenti fortemente avversi gli uni agli altri, fanno pensare. Certe volte si sconfina in ambiti che dal calcio migrano verso le analisi sociologiche e addirittura gli studi storici.

Per esempio l’accusa, più da neo giacobini che attinente ai fatti accaduti, che i pericolosi sconfinamenti degli ultras avversi a De Laurentiis siano dettati dal neo borbonismo di ritorno. Per cui i napoletani, oggi, rimembrando un eldorado passato e miseramente finito, come in una dissolvenza, in oggettiva dipendenza coloniale, rivendicano un ruolo sociale di alto lignaggio, racchiuso nella fatidica frase “meritiamo di più”.

E invece, dicono i neo giacobini, bisognerebbe considerare che questa Città resta un avamposto della disperazione in cui nessuno riesce ad imbastire un progetto valido di sviluppo, stretta tra il malaffare e un atteggiamento delle classi borghesi a metà tra il clientelismo e il menefreghismo. E che, infine, De Laurentiis sta insegnando al colto e all’inclita il modo sano di fare imprenditoria.

Andiamo per gradi. E’ vero, negli ultimi 30 anni studi diversi dalla descrizione dei fatti accaduti da parte della storiografia ufficiale, nominati “revisionismo storico”, hanno fatto capolino tra le varie stratificazioni della società napoletana, ma anche meridionale e siciliana. Non credo siano oggetto di attenzione della parte meno acculturata della società o, di più, di quelle frange della criminalità che sono contigue al tifo organizzato.

Secondo me è stato necessario recuperare un più vasto ambito di dibattito culturale, presentando i fatti come realmente accaduti e, senza fare di questa terra un antico regno del Sole, aprire un dibattito intelligente, attualizzato, sulle ragioni e i torti delle parti. Individuando nel più vasto ambito della rivoluzione industriale e degli assetti geopolitici le dinamiche che hanno determinato, in definitiva, l’attuale configurazione di comunità e nazioni. Se da un lato c’era stata la descrizione esasperata di una liberazione dal tiranno dipinta in toni biblici e palingenetici, ha fatto da contraltare, a questa epica narrazione- da Elena primum movens della guerra di Troia, combattuta invece per mere ragioni commerciali- la risposta revisionista con accentuazione delle specificità e dei successi sociali del regno borbonico. Punto. Dopo il confronto storico, la cosa doveva finire qui. Nessuna rivendicazione, nessun tipo di combattimento all’ultimo sangue, ma le dinamiche sociali che hanno contribuito a stratificare la popolazione avrebbero potuto trovare definizioni se non certezze nel sano dibattito culturale. Per arrivare a nuove proposte, certo, ma attinenti ai tempi.

Un'altra ragione per cui queste osservazioni avrebbero dovuto essere accompagnate da un certo interesse da ognuna delle parti in causa, è la ricerca, che procede dall’individuo e finisce alla comunità, di una identità di popolo, di una documentazione delle radici comuni. Che è tutt’altra cosa dalla rivendicazione sciovinista, dalle elucubrazioni di tipo leghista, dai nazionalismi esasperati attribuibili, al contrario, agli Stati nazione ottocenteschi. Quelli definiti dal Congresso di Vienna e quelli nati grazie alle indicazioni politiche, palesi o occulte, del Congresso di Vienna. Avere una storia comune, una identità culturale, definisce gli ambiti in cui ogni comunità può oggettivamente sperare di trovare un terreno comune di riscatto, di curare i mali interni, di sottrarsi a un giogo coloniale, di tipo militare o economico-finanziario che sia.

Questo porta le frange meno acculturate di una qualsiasi comunità a sentirsi parte di un insieme e non il “nulla nato dal niente”, come sogliono intelligentemente indicare i siciliani le persone “carta vetrata”, gli invisibili della società. Quindi a cercare le risposte non nella critica senza senso o nell’esasperazione dei toni, ma in qualcosa d’altro che possa migliorare la propria condizione umana e sociale. Non stiamo parlando chiaramente delle frange criminali della popolazione.

Lo stesso Falcone, il miglior giudice che questo paese abbia mai avuto, tra altri grandissimi magistrati, soleva affermare che l’efficacia della sua lotta al crimine nasceva dal fatto che lui fosse siciliano, anzi palermitano. Anzi, che fosse nato e poi vissuto in certi quartieri di Palermo. Per dire che solo nell’ambito delle conoscenze umane e sociali, nelle tradizioni culturali, nelle risposte della gente e delle istituzioni, emotive e razionali, agli accadimenti che hanno fatto la storia di una Comunità, intesa come insieme di individui, si può arrivare alla comprensione del tutto. Comprendere, intervenire e promuovere il riscatto e il miglioramento delle condizioni sociali della propria terra, individuare le dinamiche economiche e di sviluppo. Non si tratta, l’autodeterminazione dei popoli, di una mera rivendicazione di stemmi e bandiere, ma della possibilità che una Comunità indichi, governandosi in base a una propria storia condivisa, le ragioni e i torti e senza acrimonia, apra allo sviluppo culturale e sociale, in un ambito federale, nel pieno rispetto delle altre Identità, aperta ai flussi umani, come osmosi di interessi e ideali. Ecco tutto, il resto è colonialismo, palese o occulto che sia.

Un mio intelligentissimo amico siciliano, rappresentante del pensiero identitario, schierato da sempre all’estrema sinistra, Mario Di Mauro, suole dire “Se le pietre laviche avessero valore, (i colonialisti) smonterebbero l’Etna pezzo pezzo, adducendo la scusa di farlo per proteggerci dalle eruzioni”

Ecco, Identità vuol dire che l’Etna i siciliani vorrebbero smontarselo da soli, se ciò fosse necessario. Come è stato necessario che decine di valorosi uomini di legge versassero il loro sangue per contrastare la criminalità globalista e perfettamente inserita in questo mondo del consumismo e delle invasioni militari portatrici di pace, sul famoso assunto del “dovere di proteggere” delle potenze occidentali (cit. Sabino Cassese).

Ecco, identità fa il paio con pace. Il globalismo è, volente o nolente, portatore di contrasti e guerre.

Non solo, ma resta un alibi, affermava Giovanni Falcone, che la Mafia o il crimine in genere si nutra del sottosviluppo. Invece è vero il contrario, che la Mafia “in realtà rappresenta la sintesi di tutte le forme di illecito sfruttamento delle ricchezze”(cit. Giovanni Falcone-Cose di Cosa Nostra). La mafia si nutre del faraonico benessere degli Stati a vario titolo definiti occidentali, della globalizzazione, del consumismo, dello sviluppo esasperato del cosiddetto primo mondo, della mancanza di etica sociale diffusa di questo terzo millennio. La mafia accorre dove ci sono ossa da spolpare. Come ho scritto nel mio libro Montelepre Caput Mundi, quando ho affermato che i picciotti della mafia del Bronks e dell’Est Side tornarono a pascere in Sicilia, aiutati dagli americani, per fare affari lucrosi nella neo colonia Italia, destinata alla tumultuosa crescita post bellica, assieme e oltre quelli degli alleati, non certo per “contribuire allo sbarco militare”.

Siamo partiti dal Napoli calcio e siamo arrivati qua. Ma solo per giustificare un certo revisionismo che, sono d’accordo con i critici, deve restare come studio di ricerca e non come viatico di chissà quale rivoluzione senza senso.

Quindi il revisionismo (chiamiamolo pure borbonico) potrebbe essere servito anche a coloro che si definiscono ultrà e che, riconoscendosi e conoscendo ciò che siamo e da dove siamo partiti, non possono reclamare “meritiamo di più” ma solo rimboccarsi le maniche per orgoglio di comunità. Senza pensare che il calcio sia quel riscatto e senza finire tra le spire del crimine.

Restano due osservazioni. Una è che non si creda, questo si con becera supponenza neo giacobina, che il popolo ultras sia un popolo di trogloditi. Certo è avvezzo a comportamenti inintelligibili, a riti che davvero talvolta ci lasciano di sasso. Ma è anche pieno di menti pensanti. Dobbiamo trascinare queste menti pensanti dalla parte della legalità, al colloquio e non emarginarle. Sarebbe pericoloso. La parte del marchese del grillo non si addice al pensiero identitario ma a quello di una certa borghesia cittadina spocchiosa.

E, invece, quel che mi sento di contestare fieramente è che De Laurentiis sia venuto ad insegnarci il modo di condurre in porto un progetto economico sano. E no!. Non aspettavamo il profeta di Roma, fortunatissimo figlio e nipote di due geni del cinema. Certo, Napoli è tessuto disgregato, privo di tecnologie adatte a supportare arditi progetti, investimenti produttivi nel lungo periodo. Non abbiamo infrastrutture, e mi sottraggo alla stucchevole diatriba del perché non ci siano, perché vanno affrontati i problemi e non rivendicati i torti. Non sfruttiamo, noi ma ancor di più siciliani, gli hub telematici che corrono attraversando l’Isola e il meridione. Non possiamo sfruttare i nostri cieli per lo sviluppo turistico “ragionato” della nostra terra (più ancora la Sicilia, terra colonizzata in mare, acqua e cielo, sede di basi militari avamposti di guerra, e raffinerie inquinanti) disponendo di compagnie aeree locali, per un progetto vasto di accoglienza che faccia da contraltare alle vie del mare. Ma che aspettassimo, per fare buona impresa, non un capitano di industria coraggioso, ma un buon gestore di conti, non uno che investa nel rischio di impresa, ma che, intelligentemente, c’è da sottolinearlo, fa quadrare entrate e uscite cristallizzando nella dimensione la sua azienda, ecco, questo no!

Faccio due esempi perché frutto di conoscenza personale. Talarico e Marinella. Magnifici artigiani, uno artista degli ombrelli, l’altro dei tessuti. Frequentavo bambino la botteguccia dei Talarico, annessa al negozio di mio nonno ai Quartieri Spagnoli. Sono amico dei Marinella da tanti anni, da quando il papà di Maurizio mi vedeva nuotare nelle acque delle piscine napoletane. Non solo, entrambi, prestigiosi artigiani, ma intelligenti uomini di impresa. Entrambi conosciuti in tutto il mondo. Entrambi accorti gestori delle risorse. Entrambi rimasti in una dimensione attenta alle dinamiche economiche e finanziarie. Cresciuti aziendalmente cum grano salis. Con umiltà e cortesia. Napoletani dentro. E come loro tantissimi altri, anche nel campo della ricerca scientifica e dell’industria tecnologica. Fiori nel deserto, certo, ma fiori! Ginestre abbarbicate allo sterminator Vesevo. Incrollabili. De Laurentiis non è venuto ad insegnare nulla, anzi dovrebbe ringraziare questo popolo che, invece, un giorno si e l’altro pure, subisce persino le sue invettive. Come, al contrario, anche Napoli dovrebbe ringraziare un imprenditore accorto che è riuscito ad arrivare ad importanti risultati sportivi. Quelli peraltro raggiunti anche da altre realtà sociali del territorio (quante medaglie prestigiose in tutte le discipline ottenute dagli atleti napoletani e meridionali, frutto di accorte gestioni di uomini e mezzi).

Quindi posate le armi. Giudicate limpidamente. Le ragioni e i torti, la ragioni della storia e quelle della cronaca dovrebbero venire valutate oggettivamente, senza che si tifi esasperatamente per le “proprie” ragioni. Il tifo, quello si, lasciamolo sugli spalti dello stadio. Quel tifo che ci assorbe tutti, che ci fa diventare bambini, che ci esaspera e divide, per i colori di una maglia amata. Un tifo che va vissuto fino in fondo, senza essere indicato come una categoria di pensiero, ma come intermezzo di una vita difficile per molti, anonima per altri, inutile per alcuni. Ecco, il tifo è il rifugio delle nostre frustrazioni, quindi irrazionale. Quando tifo io mi permetto di esprimere cose folli, ma quando devo dibattere devo sforzarmi di comprendere ragioni e torti, le ragioni dei miei contraddittori e le ragioni che mi dividono dai miei interlocutori. Solo, rivendico il diritto di essere trattato allo stesso modo, da parte di interlocutori onesti e non di pretenziosi principi dell’Inquisizione e con esasperata arroganza.

MAURIZIO CASTAGNA

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