“Essere vecchi è un compito altrettanto bello e santo quanto essere giovani…imparare a morire e

morire sono una funzione altrettanto preziosa di ogni altra…un vecchio capace di odiare soltanto…e temere l’approssimarsi della morte, non è un degno rappresentante della sua età…”
Hermann Hesse, più di ogni pensatore orientale, oltre la filosofia e l’etica, condensa in pochi tratti l’impegno che deve caratterizzare la statura morale delle persone, all’approssimarsi dell’anzianità e della vecchiaia
Aver paura della morte significa assoggettarsi ai volubili desideri che questa società, questo liberismo occhiuto e spregevole, impone con forza e cieca violenza, dimentico del valore della vita, come essenza di amore, libertà e obbligo di condivisione.
E, come ricorda la Weil, questo è l’atteggiamento che conduce al vero sonno dell’anima, alla schiavitù, all’annichilimento etico.
Immerso nella collettività, resa anonima dall’uniformità dei desideri e dall’omologazione del pensiero, l’individuo ha una sola speranza per trovare la dimensione del vero, del bello e del giusto: rifiutare i falsi miti del consumo, l’acquisto di beni inutili, l’unico evento che sembri poter qualificare il singolo tra le moltitudini, e del successo ad ogni costo, rifiutare la dimensione egoistica che muta ogni uomo in un anonimo schiavo delle proprie ambizioni. Volgere lo sguardo dentro sé stesso, guardare oltre l’uscio della prigione, al sole che splende fuori dalla caverna, è l’unico modo per arrivare a contemplare il dolore del mondo e lasciarsi avvolgere dalla pietas e dal calore della condivisione con chi chiede e spera, e chi chiede e spera non è necessariamente l’ultimo, non è necessariamente il più indigente.
Io, io, io, io, l‘eterna presunzione dell’uomo e l’egoismo innato di una società senza morale, intrisa solo di desiderio, sfociano, come un fiume in piena, nella derisione del nemico, nella sottovalutazione dell’altro, del disperato, dello sventurato, oltre ogni stantia e ideologica divisione di classe. L’elemosina, “il far del bene” non sono dunque altro che maschere che l’individuo dominante utilizza per dissimulare il suo vero obiettivo, la sua presunzione di poter vivere sulle altrui disperazioni, a scapito del più debole e del più indifeso, il manichino vivente senz’anima che imputridisce in ogni ceto, in ogni territorio, in ogni congrega. Persino la morte diventa un alibi per occultare la paura del contagio, e la paura del disvelamento delle colpe, arrivando a proscrivere la dignità del lavoro quotidiano e l’agire civile.
Quando la morte bussava nell’ enclave disperata di Taranto, mentre l’ILVA mieteva vittime tra giovani padri, giovani madri, piccoli figli; quando imperversava a Milazzo e ad Augusta, stringendo feti abortiti tra le mani adunche, consumando operai adolescenti e maturi impiegati con crudele e paziente ferocia; quando pretendeva che i lavoratori del Monferrato morissero tra spasmi violenti, corrodendone i polmoni, nessuno, nessuno che abbia mai detto e scritto che la salute valesse più del lavoro.
E certo! Non toccava altri, la morte, che gli operai, i residenti, qualche migliaio di disperati e qualche centinaio di famiglie. Quale solidarietà pretendevano, se avevano il “lavoro”? Ingrati! Che morissero, tanto chi contava, la Società Dominante, ne era al riparo, dalla megera con la falce. Gli amministratori pubblici, i grandi e i potenti, ne erano immuni - altro che vaccino! - dalla morte e dalla morte atroce. E il resto del paese guardava altrove, con benigna sopportazione, con supponente menefreghismo. Benché, tutti questi, amministratori ed amministrati, osassero affermare valori e principi etici, anche loro, anche allora, persino adesso. Ma, scrisse Dostoevskij: “…da noi c’è una tale quantità di…”nature larghe”, le quali, per quanto in basso possano cadere, non perdono mai il loro ideale, sebbene non muovano neppure un dito per quel loro ideale”.
Ecco, voi che mortificate l’altrui pensiero, che non ha parole per esprimersi o, se le ha, non trova modo di spiegarsi senza “casse di risonanza” che lo esplicitino, senza che venga esposto al pubblico ludibrio da quelle stesse “casse di risonanza”, ecco, voi “nature larghe” che ci governate, con il consenso tremebondo di una larga parte del popolo, quello che non rischia la povertà, la disperazione, la serenità dei figli, vi ritenete immuni dal dover soggiacere all’impegno di tutelare il diritto sociale reclamato dalla Comunità che dovreste amministrare, il diritto al lavoro e alla costruzione del futuro per i figli e i figli dei figli. Contemperando, con saggezza e amore, la consapevolezza della morte con il dovere civico verso le generazioni a venire.
Il liberismo vi ha costretto a gestire il bene pubblico come un’azienda di schiavisti. Dopo aver ignobilmente tagliato occupazione e assistenza, sociale e sanitaria, adesso pregate lo schiavo che vi ha obbedito di lasciar perdere il suo diritto al lavoro, alla dignità, alla sicurezza dei suoi figli. Per nascondere il vostro misfatto. Misfatto comune ai reggenti d’Europa, ai parlamenti di quegli Stati vetusti che hanno perduto la capacità d’amministrare la res publica, venendo fagocitati dall’impudenza della Finanza dei mestieranti, degli algoritmi, della speculazione facile, delle scommesse strategiche sul destino di fame e di povertà altrui, per arricchimenti giuridicamente leciti ed eticamente vergognosi. Incapaci di svolgere una funzione pubblica di servizio, appiattiti al laissez faire del burocrate di Stato, del grand commis abbagliato da interessi di bassa lega, comuni ai lestofanti globalisti.
La “cultura della vergogna” dei padri greci, avrebbe dovuto imporre, a voi sfacciati senza decoro, una riflessione. Avrebbe indicato la strada della compassione, e della malattia e della morte come ineluttabili regine del destino. Come la guerra, la fame, la violenza, la disperazione.
E, invece, il futuro che ci prescrivete è fatto di nonni che allontanano inorriditi i nipoti dalle loro braccia, di amici che non si salutano, di delatori che accusano il vicino di trascuratezza, di mani che non si stringono, di arnesi da lavoro inutilizzati. La vera morte, l’impero dell’egoismo, del “mors tua vita mea”. Laddove la morte diventa metafora della rovina civile di un’intera Comunità.
MAURIZIO CASTAGNA
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