E sia, i concetti astratti, più che l’esercizio della Forza, sembrano costituire le fondamenta del
Potere per come esso è via via andato conformandosi ai tempi e alle mutate necessità materiali, più che spirituali, dell’essere umano. Dalla ricerca della solidarietà, dall’elogio della probità, dall’apologia del lavoro, all’ansia per l’affermazione sociale, per il piacere senza confini, per il consumo senza freni. Non che tutti abbiano dimenticato la prima dimensione e non è nemmeno vero che le moltitudini siano schierate a difesa, compatte, della seconda.
Ma, se ci fate caso, parole e concetti come libertà, fratellanza, eguaglianza, giustizia, o ancora: “Me Too”, “black lives matter”, “prima gli italiani”, man mano, col procedere dei tempi, della moltiplicazione dei media, della incalzante inter connessione virtuale, perdono significato e diventano strumento di propaganda, svuotandosi di contenuto concettuale. Così come fascismo, comunismo, capitalismo, miti e mostri culturali utilizzati dagli uni e dagli altri per controbattere senza argomenti, per schierarsi senza pensare, per giudicare senza opporre, alle altrui riflessioni, valide alternative e un’analisi critica che abbia costrutto e fondamento in una scienza sociale rinnovata. Abbracciando tout court, i sostenitori degli uni e degli altri, le direttive dell’ideologo, del segretario di partito, del capo popolo, dell’elzevirista di grido, del tecnocrate in auge. Disposti, ai loro ordini, a sacrificare sé stessi e il nemico di parte, senza nemmeno rendersi ben conto di cosa si stia trattando. Rinunciando ad esercitare la propria intelligenza, che dà facoltà di affermare o negare, ma anche di esprimere dubbi, indagando sulle “cause seconde”* e il loro intreccio nel reale. E, dovunque ci sia disagio dell’intelligenza, c’è oppressione dell’individuo da parte della società, che tende a diventare totalitaria.**
Si chiama giacobinismo, questa adesione incondizionata al partito di riferimento e quest’odio e disprezzo sconfinati per i convincimenti altrui.
Il giacobinismo nasce e muore in un lasso di tempo, una frazione dell’antropocene che, dinanzi all’eternità, ma anche ai tempi dell’uomo storico, è curiosamente un’inezia, al confronto del sangue versato, e della disperazione e delle umiliazioni subite da generazioni di “vinti”.
E si ripresenta oggi, con più ardite percezioni del reale, utilizzando un doppio codice, uno per i ristretti ambiti in cui si esercita il potere, l’altro per l’organismo sociale, in questo tempo detto dell’omogenocene, della diminuzione ed omologazione delle bio-diversità, quelle naturali, certo, ma anche dei tratti distintivi e nobili delle culture arcaiche.
I giacobini, magari inconsapevolmente, coniarono i presupposti di quella che fu detta “propaganda politica”.
La Forza, comunque espressa, quella che lede qualsiasi principio di solidarietà umana, quella che costringe il vinto e l’oppresso a chiedere al vincitore e all’oppressore “perché mi fai del male”?, permette a coloro che detengono il Potere di imporre la propria volontà senza avere l’obbligo di spiegare, di rendere comprensibile la propria condotta, di giustificare l’elaborazione di norme e comportamenti, di esprimersi in un linguaggio accessibile, negando il contraddittorio e la dialettica tra gli individui, considerati come parte di un collettivo, gregge da condurre al pascolo, quindi Persone diminuite della parte migliore, l’aspetto interiore del Sacro. Ricorrente, questo atteggiamento, a partire da quando, alla civiltà della “vergogna”, che imponeva all’essere umano, quando fosse venuto meno ai suoi doveri, di sacrificare se stesso, la vita e i beni personali, per riconquistare l’approvazione della Comunità, si è sostituita la civiltà della “colpa” che fa dell’uomo un moderno Caino che, forte del prestigio e del potere sostenuti dalla furia impersonale della Forza, che lui stesso applica per conquistare e conservare posizioni di dominio, resta sordo al giudizio altrui, e sordo a quel lamento “perché mi fai del male?”
E’ ben vero, e per fortuna, che esistono ancora uomini che, probabilmente ignorandolo, appartengono alla civiltà della “vergogna”, quelli, tra coloro che hanno in sorte posti e funzioni di comando, che ancora oggi usano l’ingegno e il cuore per ascoltare quel lamento, per decidere senza imporre, per guidare senza vessare, per giudicare senza orgoglio e senza compiacimento. Ma, la maggioranza dei dominatori, in particolar modo della sfera pubblica e inseriti nel nucleo della rappresentanza politica, vive l’Imperium e la Potestas come dati di fatto, come gustasse un frutto divino, percependoli come inevitabile omaggio al Princeps di turno e ai suoi vassalli, individui che hanno perduto ogni interesse al bene, smarrendo, al tempo stesso, il senso della propria sacralità, dimenticando che ogni ambizione è dismisura, ma diventa intollerabile quando perde completamente la nozione di “rapporto”***con la natura e gli individui
Il dominatore agisce come la tigre che, prima di colpire ed affondare i denti aguzzi nella preda, manifesta la sua presenza con suoni sordi e sommessi, per spaventare, angosciare, e poi via via ruggisce più forte per immobilizzare la vittima terrorizzata, e la paura stessa ha il suono del panegirico e della lode alla fiera, ed è con questo ardito simbolismo che si espresse il dottor Winfield nel suo “Capire la propaganda”.
Ma né il ruggito della fiera, né la paura che ne consegue, potrebbero permettere al Potere, quale esso sia, di esercitare il dominio con la Forza se non poggiassero, i presupposti demagogici del comando, su concetti semplici, dall’elaborazione spontanea, immediatamente percepibili, parole d’ordine, come “libertè, egalitè e fraternitè”, vascelli in balia di tempesta che navigano su un mare di sangue. Veleggiando tra mille contraddizioni, capaci di colare a picco ogni oppositore: e la forca, e la guerra, cantarono infatti per anni inni alla morte. Caddero teste coronate e semplici contadini, uomini di pensiero e fantaccini inconsapevoli gettati nelle fauci di conflitti criminali
Le strutture di pensiero, più ancora di quelle sociali, videro e vedono ancora una volta l’umanità divisa in oppressi ed oppressori, pur essendo mutati gli uni e gli altri, curiosamente scambiatisi di posto, in un’eterna altalena. Fatto salvi i grandi camaleonti, sempre in sella e che, in ogni epoca, illustrano la malvagità, la corruzione e la protervia, la vigliaccheria e l’istinto infido dell’essere umano
E che dire del Potere esercitato dalla Religione, quando l’Amore e la Fede ne costituiscono non lo scopo e il presupposto, ma uno strumento, un mezzo per il fine ultimo che, come per le Istituzioni laiche, resta l’esercizio del Potere, senza nessuna attenzione ai colpi inflitti dalla sorte ai disperati. E dunque le vuote espressioni del potere laico mutano in “siate buoni” “vogliatevi bene”, e poi “peccato”, “perdono”, “espiazione” “colpa”. Concetti, i primi, che illudono, i secondi che incutono pena e paura, ma anche partecipazione entusiastica, passione, zelo, ecco, “zelo”
Se Simone Weil fosse ancora viva ci ammonirebbe sulle conseguenze dell’ardore indiscriminato, dell’istinto che non fa precedere, all’azione, il pensiero razionale.
Ci metterebbe in guardia dall’uso strumentale di parole senza significato, se non illuminate dal proprio personale sacrificio, dalla comprensione del fine ultimo, dallo sforzo di comprendere il reale, dallo sforzo di costruire una scienza realmente sociale
Perché, l’ideologia, come l’oppressione, non ha colore, né un determinato profilo giuridico, e totalitarismo non è un termine proprio delle dittature, ma di ogni forma di dominio complesso che nasce dalla manipolazione del pensiero altrui e dall’uso insensato di termini evocativi. Anche oggi, visto che il Potere non consente riflessioni ed esercita il dominio basando la sua comunicazione sul Terrore, in modo che gli inconsapevoli possano applaudire senza ritegno il dominatore (dei mezzi di comunicazione), ed essere disposti a tutto, persino a perdere la propria libertà e a vendere i figli all’affamatore di turno, fino a scoprire il lato profondo e oscuro delle proprie anime vigliacche, piegandosi ai voleri del nuovo despota, che sia rappresentato da un partito, da uomini politici, dai commentatori del mainstream o da consessi di scienziati; anche oggi, certo, perchè si ripropone l’arcano delle parole vuote di senso. Simone stessa, immedesimandosi, per scelta coraggiosa, nella condizione più umile, dello schiavo senza riscatto e del malato senza speranza di remissione di malattia, provò questa sensazione di soggezione, di adulazione del dominatore, di dipendenza dai suoi annunci privi di afflato sociale.
Nel settecento i giacobini utilizzarono termini che infiammarono non solo i cuori semplici dei sanculotti, ma che provvidero ad illuminare e giustificare, senza sorta di vergogna, l’imperialismo sanguinario napoleonico agli occhi di colte e raffinate anime aristocratiche, le quali scambiarono le teste mozzate per stelle cadenti sul destino dell’umanità. Senza conoscere nulla, ma proprio nulla, della condizione servile, i presuntuosi illuminati vagheggiavano, dai loro palazzi sfarzosi e illustri, sul cosa realmente servisse al popolo affamato e disperato, non pane e riscatto sociale, ma alberi della Libertà, appunto, con fregi dorati e berretti frigi, simboli vuoti di contenuto. Cacciando i vecchi padroni e cantando inni ai nuovi, benchè i nuovi, proprio come avevano fatto i vecchi, avessero provveduto a fare degli oppressi, gli ultimi nella scala sociale, carne da macello e scranno del proprio dominio.
E, come egalitè, fraternitè e libertè significarono null’altro se non il gioco perverso dell’illusione immaginifica sotto le campane a morto, e lampi di Terrore sotto i quali caddero, e a josa, anche le maggiori figure del giacobinismo francese, così oggi, complottismo, populismo, no-vax additano il nemico, anche se il nemico non crede nei complotti e magari spera nei vaccini. E ancora “comitato tecnico scientifico”, “dobbiamo stringere i denti per superare questo momento”, “sacrifici ora, per la sicurezza di domani” “salvaguardia della democrazia”, “andrà tutto bene”, ecco, pare più articolata la strategia comunicativa del Potere, che è poi quella illustrata criticamente da Overton e Chomsky, studiosi delle scienze sociali e che porta al dominio indiscriminato sulle menti deboli (la famosa “finestra” del giovane sociologo, che affaccia sull’abisso dell’inconsistenza dell’uomo, quando abituato a fidarsi senza discernimento dell’Auctoritas; o l’apologo sulla rana bollita, la geniale metafora del pensatore anarchico). Menti che sono deboli perché vogliose solo di protezione e di tranquillità sociale, e incapaci di provare se stesse col ferro e col fuoco, come usano fare le anime forti, per arrivare a un grado di comprensione della realtà assai maggiore, per arrivare ad udire il suono del dolore, quel grido di pena, “perché mi fai del male?”, come esso si propaga tra gli oppressi, a qualunque ceto essi appartengano, pagando di persona le conseguenze di coraggiose prese di posizione, combattendo il mostro della Demagogia, i mantra dei regimi democratico-liberisti, il potere dei partiti politici dalle infinite metamorfosi, fino a vagheggiarne la soppressione in nome della condivisione comunitaria e dell’ecumene salvifica.
MAURIZIO CASTAGNA
*(Tommaso D’Aquino-Summa Teologica)
**(Simone Weil -Lettera a un religioso)
***(Simone Weil -Quaderni, volume primo)
MAURIZIO CASTAGNA
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