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  • Immagine del redattoreMaurizio

Dell’esasperazione agonistica

Abbiamo tutti visto cosa è accaduto al giro di Lombardia, dopo una terribile caduta che ha visto

protagonista il ciclista Evenepoel.

Il ragazzo è caduto in una scarpata, precipitando oltre un muretto di contenimento.

Era in uno dei gruppi formati dal distanziamento naturale dei corridori, in una corsa del genere.

Dopo, ci si sarebbe aspettati un precipitarsi dei tanti per recuperarlo, con tutte le precauzioni del caso, tentativi ripetuti per accertarsi delle condizioni del ragazzo.

E invece no!

Le ammiraglie al seguito della corsa, le moto con i giornalisti e gli addetti, nessuno, dico nessuno si è fermato a soccorrere il ragazzo, che nel frattempo aveva riportato la frattura del bacino. Anzi si vede che tutti accostano e poi riprendono velocità. Un addetto alla giuria scende dall’auto, addirittura scosta la bici del ragazzo, mettendola sul cavalletto sul ciglio della strada, e poi risale in auto e si allontana. Certo, ha anche fatto bene, lasciare la bici di traverso nella strada sarebbe stato altrettanto pericoloso che fermare l’auto in curva. Non contesto il gesto, contesto che non si sia fermato ad aiutare, lasciando ripartire l’auto.

Il tutto viene ripreso da una telecamera, mentre i tifosi urlano perché il corridore venga soccorso. Anzi, proprio loro, visti inutili i tentativi di allertare chi avrebbe dovuto assistere i corridori in corsa, si precipitano a soccorrere il ragazzo, senza alcuna possibilità di farlo e senza attrezzature.

Ripeto, il punto in cui è caduto il ragazzo era in curva, certo che fermare lì le auto sarebbe stato sbagliato e da scriteriati. Ci mancherebbe! Ma, in effetti, non si trattava di lasciare in curva una serie di “ammiraglie”, si trattava di fermarsi là, in uno o due, cercando di dare una mano, lasciando ripartire le auto, che andassero via a chiamare soccorso. La più semplice tra le manifestazioni dell’uomo, la solidarietà, a costo di non seguire più il proprio campione, di non accompagnarlo al traguardo, ecco che avrebbero dovuto fare quei direttori sportivi. Si chiama “sacrificio caritatevole”. E poi, anche le moto, uno sguardo e via, anche dalle moto nessuno è sceso ad aiutare. E, francamente, lasciare a non addetti ai lavori tale onere, è stato un rischio terribile. Chiunque non abbia capacità in tal senso, aiuta come può, rischiando in proprio.

Da tempo utilizzo tutti i media, da un libro denuncia, scritto per le edizioni Edi Ermes, ai social, alle conferenze, i dibattiti, le dichiarazioni spontanee, per combattere la deriva dell’agonismo sportivo, l’eccesso di competitività che passa da pratiche distruttive per i giovanissimi al doping, alla condizione di schiavitù delle atlete, specialmente in determinate attività sportive.

E l’agonismo sportivo riflette dannatamente la caratura competitiva dei nostri giorni nella sfera sociale, nella quale, come nel primo ambito, a dispetto delle ipocrite dichiarazioni di rispetto, l’avversario o il collega di lavoro è “il nemico”

Il video lascia indispettiti. Adesso certamente si affretteranno a scusare quei direttori sportivi, affermando e scrivendo che non avevano possibilità di recuperarlo e che si sono precipitati nelle macchine per chiamare i soccorsi, quello adatti, quelli che “avrebbero potuto”. Certamente, assembrare in quella situazione decine di auto e moto sarebbe stato non solo inopportuno ma assai pericoloso. Ma avrei voluto davvero guardare nel cuore di quegli uomini e, certo, nella loro mente razionale. Credo che molti abbiano utilizzato l’alibi del pericolo dell’affollamento in curva, e forse, in quelle condizioni, anche io sarei venuto meno ai miei doveri di “uomo che deve restare umano” come diceva il compianto Vittorio Arrigoni. Per moltissimi esseri umani, il sentimento della “condivisione”, dell’amore per il prossimo, della cura degli affetti, della “presenza dell’amico” devono sembrare locuzioni senza senso, vuote e che non significano nulla. All’arrivo forse molti avranno dichiarato che, però, erano “molto preoccupati”. Forse nello sport attuale non viene nemmeno percepito, l’altro, come nemico, ma come il Nulla.

E poi, la competizione si sposta nella vita di tutti i giorni, nella società, nella quale il Nemico – o, peggio, il Nulla diventa l’altro, quello che ci impedisce di fare carriera, l’altro più bravo di noi in tutto, quello che non ci permette di sfruttare una notizia, una situazione altrimenti favorevole, la persona che si difende da accuse false, il caritatevole che smaschera l’utilizzo improprio di fondi per l’assistenza. Il Nemico, quello che non ci permette di raggiungere la tranquillità economica, di comperare gli oggetti dei nostri desideri fasulli proposti dal demone del consumo.

Esagero? Si certo, se si fossero fermati in tanti, in quella curva, avrei certamente esagerato. Ma non si è fermato nessuno, dico nessuno! Guardatevelo quel video, è l’immagine dell’Occidente opulento e senza etica. Certamente razionale, assolutamente professionale (mai fermare auto in curva, mai rischiare di provocare ulteriori danni agli altri corridori, certo, è così). Ma un gesto, uno slancio di solidarietà, come quei piloti che scendono dalle auto da corsa per aiutare il collega ferito, ma senza possibilità di farlo, perché magari senza estintori quando l’auto brucia, ma solo per solidarietà, per “essere là”, rinunciando alla gara, per il nobile sentimento della condivisione, no? Quelli che restano accanto ai feriti, ai moribondi, quelli che non fuggono, non potendo fare altro che “restare (umani) accanto”.

Vi dicono niente i nomi di Braima Sunclar Dabó, di Abbey D’Agostino e dei fratelli Brownlee? Di Zanardi e Fontanari? Di Laurence Lemieux? E ricordate il consiglio di Long a Owens (Lutz rischiò la pelle oltre al titolo). E il bullone di Eugenio Monti? Storie di ordinaria rinuncia alla gloria sportiva per soccorrere l’avversario. Cosa sarebbe costato a quegli uomini scendere dalle auto e dalle moto e precipitarsi, con tutte le precauzioni del caso, nella scarpata, mentre i veicoli lasciavano libera la carreggiata?

Ha vinto il nostro neghittoso agire quotidiano, egoista e superbo, pieno di alibi, tutti professionali e tutti adatti a rifiutare il gesto più semplice, la virtù più alta, la carità umana.

Maurizio Castagna

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